C’è un filo sottile che lega il presente al passato della psichiatria; o forse è più corretto parlare di una tentazione, per sua natura irresistibile, come direbbe O. Wilde (posso resistere a tutto, tranne che alle tentazioni). Un filo che lega la follia e la devianza a vere o presunte esigenze di sicurezza pubblica, che anche dopo la scomparsa dell’istituzione manicomiale non è mai scomparso: come un fiume carsico, scompare sottoterra e poi riaffiora.
Ogni qualvolta accade (con frequenza statisticamente bassissima) che un “folle” commetta un atto violento, si riapre (non solo nei talk show televisivi o nelle conversazioni comuni) il dibattito sulla necessità di rinchiudere i pazienti che vengono, a priori e con nociva generalizzazione, definiti pericolosi. Se la vittima della violenza, con una frequenza statistica ancora inferiore, è un operatore dei servizi di Salute Mentale, allora – anche sulla spinta dell’emozione dei Colleghi della vittima, comprensibilmente colpiti dalla tragedia – il dibattito si sposta sulle misure di sicurezza da assumere a favore degli operatori della Salute Mentale. Così, per impedire atti di violenza dei folli, si chiedono procedure e congegni vari, dalla videosorveglianza a misure equivalenti a quelle antirapine nelle banche, da installare però negli ambulatori dei Servizi Territoriali di Salute Mentale.
Il manicomio, dal punto giuridico ed anche architettonico, l’edificio asilare che rinchiude folli, criminali e vagabondi, non esiste più. Sono altri oggi i pericoli percepiti dai politici “piazzisti”, come li ha definiti il Segretario della Conferenza Episcopale Italiana, che parlano alla pancia ed al cuore nero della gente: oggi sono i migranti. Il manicomio non c’è più e non ci sono più le sue mura che rinchiudevano i folli ed i vagabondi, che potevano perire nel tentativo di uscire per non morirne; ora le mura materiali e simboliche tengono fuori i migranti, che troppo spesso muoiono, ogni giorno, nel tentativo di entrare, per non morire al di fuori di esse.
La stagione manicomiale è passata, e con essa le sue violenze. Ciò che è rimasto di quella violenza – al tempo, perfettamente legale – è, o dovrebbe essere, il Trattamento Sanitario Obbligatorio. Giuridicamente il T.S.O. della L. 180 è, o dovrebbe essere, ben diverso dalle pratiche violente manicomiali e comunque dall’antico “ricovero coatto”. Innanzitutto, sappiamo che esso rispetta la riserva di Legge del 2° comma dell’art. 32 della Costituzione (“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”)
Il Trattamento Sanitario Obbligatorio (art. 32-35 L. 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale come modificata dalla L. 180/78) è dettagliato, prevede tempi limitati di ricovero, un meccanismo di convalida da parte del Sanitario ed anche un procedimento di opposizione alla misura coercitiva; la Legge indica in quali reparti ospedalieri debba essere attuato, specifica che deve essere accompagnato da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi lo subisce; il ricovero coatto viene disciplinato accanto al ricovero volontario per impedire che esso nasconda un ricovero obbligatorio o divenga ricovero perpetuo; esso deve comunque essere attuato nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.
Il T.S.O. in psichiatria rimane, o meglio dovrebbe rimanere, l’ultima spiaggia, l’extrema ratio, l’unica alternativa ad agiti etero od auto aggressivi gravi del paziente; a maggior ragione non dovrebbe esistere, o essere limitatissimo, l’uso dello strumento della contenzione meccanica o farmacologica.
Siamo di fronte (ricovero coatto e/o contenzione) in entrambi i casi a diritti fondamentali della persona, costituzionalmente tutelati (la libertà personale in senso stretto dell’art. 13 Cost., quella di non essere sottoposti a trattamenti sanitari non voluti dell’art. 32), soggetti a riserva di Giurisdizione o di Legge, che possono essere sacrificati, quando la Legge lo consente, solo mediante la ricerca di un delicatissimo equilibrio tra interessi contrari ed opposti in ogni singolo caso specifico.
Alcuni Autori (1) hanno osservato che l’introduzione della L. 180 e la sua rottura con il passato, ovvero la L. Giolitti di ottocentesca impostazione, avevano creato un clima tale tra gli operatori da far ritenere pressoché certa la scomparsa della contenzione in psichiatria, in quanto collegata alla normativa, alla cultura ed alla pratica “manicomiale” ormai cancellata per Legge.
L’abolizione del manicomio non avrebbe che potuto condurre all’emergere ed al rafforzarsi della “buona pratica psichiatrica”, per sua natura non manicomiale, e quindi alla scomparsa naturale della contenzione e del ricovero coatto, grazie alle garanzie della nuova Legge.
Ma le buone pratiche non nascono solamente dalle migliori intenzioni e dalla buona volontà, né possono sbocciare solo da buone leggi. Così la contenzione in psichiatria non è affatto scomparsa, anzi è ampiamente praticata sia in molti Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, sia in strutture residenziali non psichiatriche (2), senza essere regolata come in passato, ai tempi dell’istituzione manicomiale, da leggi specifiche. Si applica il diritto penale: il fatto di legare o comunque di privare della libertà una persona costituisce certamente un comportamento illecito, ma può essere scriminato in presenza di circostanze che ad esempio configurino lo stato di necessità (art. 54 C.P.) o la legittima difesa (art. 52 C.P.) e quindi, come nel caso del T.S.O., l’esigenza di impedire comportamenti etero o auto aggressivi gravi.
Il T.S.O. e quindi il ricovero coatto, ha una sua normativa specifica, viene ancora ampiamente utilizzato. Però di T.S.O. si muore anche, come accaduto recentemente.
Si muore per l’incapacità – forse – dei Servizi Territoriali di dare risposte efficaci e continuative; si muore – forse – per una concezione burocratica della cura e del T.S.O. stesso che diventa una croce su un modulo, specie per i pazienti “noti agli uffici” come si dice nel gergo giudiziario; si muore forse – per fatalità, per superficialità si muore per una concezione del T.S.O. che, forse, in fondo in fondo, non è così lontana dal vecchio pensiero manicomiale dove non esisteva la persona, ma il folle.
Nella Legge del 1904 il malato di mente è considerato pericoloso per sé e gli altri, quindi è necessario il suo contenimento per garantire la pubblica sicurezza e la moralità pubblica e da ciò la necessità dell’internamento in manicomio: tutti i disturbi mentali sono considerati pericolosi, prevedendosi quindi l’obbligo del ricovero nei casi di pazzia.
La L. 180 rovescia completamente la situazione: prima la persona, la sua dignità, i suoi diritti: perché un folle deve avere meno diritti di un criminale? Il folle è prima una persona (sofferente), poi un paziente, infine, talvolta, come i sani, può essere pericoloso per sé e per gli altri.
Ma se il T.S.O. viene attuato da agenti di Pubblica Sicurezza, come può trattarsi di un intervento sanitario? Quale formazione sanitaria hanno ricevuto gli agenti della Polizia di Stato, i Carabinieri, gli agenti della Polizia Municipale, che sparano al paziente per impedirne la fuga, uccidendolo, come a Sant’Urbano il 29 luglio 2015, o lo sottopongono ad uno strangolamento mortale per fiaccarne la resistenza, come a Torino il 5 agosto 2015?
Quale rispetto della dignità della persona, o della sua stessa vita, può esserci in una gestione sempre più burocratica della procedura che regola il Trattamento Sanitario Obbligatorio?
Il T.S.O. dovrebbe essere, lo ripetiamo, l’estrema ratio. Probabilmente non si potrà mai fare a meno di dover ricorrere, in qualche occasione, ad un trattamento sanitario obbligatorio in Psichiatria, ma certo non c’è bisogno di strumenti che ne consentano un utilizzo ancora più ampliato.
Non c’è bisogno ad esempio di una proposta di Legge che aumenti il numero dei T.S.O. introducendolo specificamente per i pazienti affetti da Disturbi del Comportamento Alimentare (3), certificando in tal modo, tra l’altro, l’impotenza della pratica clinica.
Occorre invece, a decenni di distanza, riprendere il filo della Legge 180 partendo dalla libertà e dalla dignità del paziente e puntando realmente sulla professionalità e sulle buone pratiche, per evitare i T.S.O. e far sì che quando esso sia l’unica soluzione non diventi, come è stato nel caso di Mauro Guerra e Andrea Soldi, ed altri ancora prima di loro, un “mandato di cattura”: come lo ha efficacemente definito Peppe dell’Acqua in un commento alle ultime morti di T.S.O. (4).