I 44 anni anni dalla Legge 180 hanno stimolato libri e dibatti anche quest’anno.

Nella maggior parte dei casi, gli interventi hanno evidenziato un positivo afflato a riformare il sistema nell’interesse del paziente e dei suoi diritti, mettendo in primo piano il diritto alla salute e la dignità del Paziente.

Aspetti questi ultimi, fermo il rispetto dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, che dovrebbero e devono essere la stella polare del dibattito sulla L. 180.

Un bilancio di questi decenni di applicazione della L. 180 è fondamentale e certamente il depotenziamento dei servizi territoriali, i fondi limitati all’interno di un fondo sanitario insufficiente ed inferiore alla media europea costituisco un primo grande problema.

Ma se un maggior afflusso di risorse è necessario, comunque è condizione necessaria, ma non sufficiente per migliorare il sistema dell’assistenza psichiatrica e la Salute Mentale in Italia.

La mancanza di risorse non può infatti giustificare scelte (solo) apparentemente secondarie che vanno contro le finalità previste nella Legge 180, nella Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e soprattutto nella Costituzione italiana.

La chiusura ed anzi l’apertura dei manicomi è stato il risultato di un grande movimento politico, ma anche scientifico, perché molto semplicemente il Manicomio non cura.

La L. 180 è stata il risultato del lavoro e della lotta di tanti/e operatori nei nascenti servizi territoriali e nelle esperienze di comunità introdotte in Italia da operatori del pubblico e del privato, profit e non profit e dei cittadini sensibili a contrastare la barbarie manicomiale.

Occorre però ricordare che nel 1998, a vent’anni di distanza dalla Legge 180, il governo nel quale Ministra della Sanità era Rosy Bindi, varò una legge finanziaria nella quale era previsto un decremento delle risorse assegnate alle Regioni che non avessero provveduto a chiudere (o meglio, ad aprire) gli ultimi manicomi sul loro territorio.

Fu solo ed esclusivamente questa “sanzione” ad attivare le Regioni inadempienti (la grande maggioranza), che in pochi mesi fecero ciò che non erano riuscite (meglio: non avevano voluto) fare in vent’anni: chiusero i residui manicomiali.

Strutture associate a Fenascop ricordano di pazienti “consegnati” in struttura a volte senza nemmeno il foglio terapie per la fretta. Strutture residenziali nacquero ex novo proprio per accogliere i pazienti in uscita dagli ultimi manicomi.

Chi ha lavorato in quegli anni nelle strutture associate a FENASCOP, ricorda pazienti che dopo decenni di manicomio, scoprirono di potersi lavare da soli, mangiare con le posate, imparare (o imparare di nuovo, avendo durante la restrizione in manicomio perso le relative competenze) a leggere e a scrivere, prendere licenze di scuola elementare e media, intraprendere percorsi di autonomia. Il tutto nonostante e compatibilmente con l’età e soprattutto il degrado provocato da decenni di manicomio, due decenni dei quali dopo la L. 180 che pure aveva chiuso (ma chiuso davvero, nel loro caso, invece di aprirlo) il manicomio in cui… erano rimasti rinchiusi.

Ed ancora oggi, le stesse Strutture Riabilitative Psichiatriche (ora SRP) sono impegnate nella (ri)costruzione di identità frammentate dalla malattia o da un profondo ed invalidante disagio, fondando il lavoro quotidiano su una “tecnologia umana” altamente professionalizzata che ripropone setting e relazioni dimenticati o addirittura cancellati dalla attuale società liquida, competitiva, consumistica e disgraziatamente individualizzata.

Questo per dire che, per proseguire un dibattito sulla Legge 180 e sullo stato attuale della Salute Mentale oggi, parafrasando il grande Fabrizio De Andrè, dobbiamo tutti/e dire “anche se ci crediamo assolti, siamo lo stesso tutti coinvolti”.

E dobbiamo prima di tutto rimuovere le incrostazioni burocratiche che ancora affliggono i percorsi di cura, specie nelle strutture residenziali. Che impediscono percorsi di cura individualizzati e differenziati sui bisogni del paziente, perchè tarati sulle inefficienze del sistema (mascherate da esigenza di contenimento della spesa per bilanciare risorse disponibili e bisogni di salute).

In questi anni, FENASCOP si è trovata a dover lottare davanti al Giudice Amministrativo rispetto a scelte di diverse Regioni, spesso suggerite da istanze nazionali e commissioni ministeriali che certamente andavano contro quei principi che ispirano la L. 180 e la Legge 833 istitutiva del S.S.N. e che costituivano proprio queste “incrostazioni”.

Una battaglia, importantissima, vinta nelle aule giudiziarie, ma, nonostante questo, incredibilmente ancora in corso.

Parliamo della riabilitazione psichiatrica nelle strutture residenziali extraospedaliere, sulle quali si è tanto normato per adottare una classificazione uniforme nazionale da imporre (giustamente, data la babele terminologica e degli standard autorizzativi ed accreditativi) alle Regioni.

Ma negli ultimi L.E.A. approvati nel 2017, nonostante l’annullamento giudiziale, esiste ad esempio l’illegittima “salute a tempo”.

Il paziente ricoverato in una struttura residenziale, dopo un periodo massimo di ricovero, per “dettato normativo” non può che essere migliorato nel suo stato di salute mentale, secondo i LEA vigenti.

Una concezione illegittima, potremmo dire addirittura “magica” della riabilitazione psichiatrica che FENASCOP ha sempre combattuto, ottenendo il ritiro delle proposte regionali e vincendo davanti al Giudice Amministrativo, da venti anni a questa parte, quando quelle proposte sono diventate norma.

L’art. 33 dei LEA pubblicato in Gazzetta Ufficiale ancora oggi infatti prevede che, decorso il termine massimo di ricovero, il paziente psichiatrico debba necessariamente essere ricoverato, senza possibilità di rivalutazione diversa dei bisogni del paziente, in una struttura a bassa intensità assistenziale con compartecipazione alla retta per il 60% del suo importo.

Eppure, già il Consiglio di Stato (sentenza n. 1858/2019) aveva annullato questa previsione dei LEA vigenti, senza che la norma venisse però mai modificata.

Il 28 ottobre di quest’anno, prendendo atto dell’orientamento del Consiglio di Stato, il TAR Lazio (sent. 13895/2022) a distanza di tre anni, ha accolto il ricorso presentato nel 2017 da FENASCOP, annullando di nuovo la previsione della “salute a tempo” per il paziente psichiatrico ricoverato in una struttura residenziale psichiatrica.

Pare ormai scontato, purtroppo, che FENASCOP debba agire giudiziariamente per ottenere l’ottemperanza alla decisione del Giudice Amministrativo e quindi la modifica di quella disposizione nei LEA, così come ha fatto negli anni dalla sua costituzione nel 1995, per contrastare le “incrostazioni” e gli automatismi burocratici che anziché tutelare la qualità delle prestazioni riabilitative e la cura da garantire al paziente, le mettevano seriamente a rischio.

Ci vorrà tempo, e nel frattempo i pazienti più intraprendenti o i loro familiari per non vedersi applicata la “salute a tempo” dovranno rivolgersi a loro spese ad Avvocato, che porterà la giurisprudenza citata al Dipartimento di Salute Mentale interessato, confidando di non dover agire in giudizio per ottenere il rispetto dei loro diritti.

Ma se il sistema della salute mentale, dalla Presidenza del Consiglio al Ministro della Salute, fino all’operatore del più sperduto avamposto, non riesce nemmeno a adeguarsi alla decisione, definitiva e priva di difficoltà interpretative del Giudice Amministrativo su un (apparente e peraltro importantissimo dettaglio) siamo proprio sicuri che questo sistema sia in grado di cambiare e soprattutto di cambiare in meglio?

 

 

Per FENASCOP – Federazione Nazionale Strutture Comunitarie Psicosocioterapeutiche

il Presidente Nazionale Avv. Emilio Robotti